Tra Pianezza e il mondo: quattro chiacchiere con Guglielmo Meltzeid

di Sara Gauna

È giovedì mattina, piove e c’è poca luce. Malgrado ciò, un chiarore rasserenante avvolge la stanza. La sala principale ospita centinaia di tele: volti, nature morte, paesaggi, dettagli d’ogni genere sono le fonti di quel bagliore fiabesco che accoglie il visitatore al suo ingresso nello studio di Guglielmo Meltzeid.

Puntualissima!” esordisce Guglielmo, aspettandomi oltre la soglia. M’invita a seguirlo in una stanza attigua, il luogo di lavoro vero e proprio. A dominare la scena, una grande finestra in stile inglese e un tavolo occupato da colori e pennelli. Intorno altre opere: dipinti, serigrafie, puntesecche.

So che molti di questi quadri saranno esposti a breve…
Ah, sì! Hai già visto che farò una mostra…

Sì, ho letto sia della tua esposizione a Cirié, sia della mostra a Villa Casalegno dal 29 novembre all’8 dicembre…
Degli allievi, dici. Sì, sono due cose diverse. A Pianezza espongono gli studenti. Dieci donne che seguo ormai da tre anni… e chi molla, molla, eh! Anche perché c’è una coda infinita di gente che vorrebbe entrare. Io non faccio pagare…

Davvero?
Sì, diciamo che mi sento in dovere di restituire quello che mi è stato regalato dentro. Ci troviamo ad Alpignano, in questo spazio che il Comune lascia a disposizione delle associazioni. E cosa insegno loro? Beh, a usare solamente tre colori: rosso, giallo e blu (che è poi quello che faccio io). Le chiamo “fate”, perché trasformano questi tre colori in tutti i colori del mondo. Una caratteristica della mostra è che riguarda le fiabe: ognuna ha scelto la sua fiaba e l’ha sviluppata attualizzandola.

Un’idea davvero originale! E invece cosa mi puoi dire di Ciriè?
Intanto si terrà all’interno di un bel palazzo, Palazzo D’Oria, vicino al Municipio. Sono quattro sale, tutte grandi, da riempire. Esporrò sessanta, settanta pezzi… se consideri che normalmente se ne presentano venticinque, trenta. Per questo dico che sarà una grande mostra!


Caspita!

Eh, sì. C’è un signore, un architetto laggiù che lavora già da un mese… catalogare, allestire, curare i comunicati stampa, i rapporti con il Comune… è un lavorone!

Eh, immagino. Settanta opere, è un’occasione…
Sai, io vado dove mi invitano. Il Comune mi ha invitato, sono stati gentilissimi. Mi hanno permesso di scegliere il periodo all’interno di una finestra di quattro mesi. Verrà inaugurata il 6 dicembre e andremo avanti per un mese, che è tantissimo! E poi… che altro dire… [sorride], tu cosa vuoi sapere?


Intanto qualcosa sul tuo modo di dipingere. So che hai cominciato in pubblicità, con la cartellonistica, e vedo che nei quadri utilizzi il colore acrilico. Pensi che quelle esperienze ti abbiano indirizzato verso questa scelta?
Intanto sono mille anni che dipingo, ehehehe! All’inizio dipingevo a olio, l’acrilico è arrivato in Italia nel ’70-’71. Il mio modo di dipingere era già quello delle campiture. Io non sfumo, propongo campi di colore che poi il tuo occhio fonde: sei tu che finisci il quadro. Per farlo ho bisogno che un’area sia asciutta prima di procedere con la successiva, e l’olio ci mette una vita ad asciugare! All’inizio avevo una miriade di quadri impostati e saltellavo dall’uno all’altro. Quando è arrivato l’acrilico ho voluto provarlo. Intanto asciuga subito e si diluisce con l’acqua. Quando finisci ti lavi le mani col sapone, niente acquaragia o altro. E poi l’acrilico è opaco, accattivante…

Come l’atmosfera dei tuoi dipinti! Come si sviluppa l’idea di un quadro?
Sono emozioni. Io dipingo le mie emozioni… e lo stimolo, vedere come riesci a realizzare ciò che non hai ancora fatto. Ora, ad esempio, sto dipingendo il dettaglio di una moto, solo il dettaglio. Il manubrio, lo specchietto e, appeso al manubrio un casco con su scritto “Route 66”, la leggendaria strada che attraversa gli Stati Uniti. Ma se tu prosegui, guardi nello specchietto… ecco, lì c’è il riflesso di Portofino, ehehe…

Un gioco! So che ti piace inserire di questi messaggi all’interno dei tuoi quadri. Ricordi com’è nata quest’abitudine?
È un gioco. Sì, beh, un lavoro, certo, ma per fare un quadro ci vogliono almeno dieci giorni. Mentre sei lì concentrato che dipingi, ti diverti anche, e allora lo comunichi attraverso frasi, forme… Il denominatore di tutti i miei quadri è l’ottimismo: sono una “pacca sulla spalla”, se li guardi ti viene da sorridere. Sono io, i miei quadri sono io!

Ci sono artisti che ti hanno ispirato?
Sì, sì, più d’uno! Non avendo fatto studi sul campo, ho studiato storia dell’arte per conto mio, e alcuni in particolare mi hanno catturato. Principalmente El Greco, Caravaggio e Chagall. El Greco, già nel ‘600, stilizzava in modo pazzesco, e questo mi ha affascinato. Caravaggio per le luci e per i sogni Chagall. Quei tre sono i…

I principali, diciamo. E per quanto riguarda i tuoi viaggi all’estero? So che hai viaggiato tantissimo.
Eh, si poteva fare di più!

Ma quel che hai fatto è già notevole! Fra i luoghi visitati, quale ti è parso il più aperto verso l’arte?
Mah… ora mi tocca ripassare! Beh, direi Parigi. E poi sì, dai, anche l’Italia. L’Italia, con la storia che ha! – fossero un po’ diversi gli italiani…- Ma è grazie a Parigi che sono poi arrivato agli Stati Uniti: New York, Baltimora, Hartford, Washington…

Ma in tutto questo, c’è un momento che puoi dire “questa è la più grande soddisfazione che ho ottenuto”?
No, no. Facendo questo tipo di lavoro, la cosa più importante è il lavoro. La soddisfazione te la dà il quadro… il bambino a cui piace il quadro, ad esempio. Per un certo periodo ho esposto nel Meridione, tra Napoli, Vico Equense e Sorrento. A una mostra c’era questo signore, era rimasto incantato da un quadro, continuava a ripetere “eh, se potessi permettermelo…”. Era sincero, era davvero rapito! E allora gliel’ho regalato, e lui era incredulo, si è commosso. È quella la soddisfazione: vedere una persona che “pende” letteralmente dal quadro.

Il resto, i riconoscimenti… sai, arrivi a un certo punto che non ci pensi più tanto. Una volta, ad esempio, sono stato invitato alla Casa Bianca a ritirare un premio. Te l’ho raccontata questa?

No, non ancora!
Beh, mi sono detto “va bene, andiamo alla Casa Bianca!” e ci sono andato vestito normalmente. All’ingresso mi hanno bloccato: “No, non si può entrare senza cravatta!”. E così mi sono fatto prestare giacca e cravatta. Hai qualcosa da raccontare. Ma mentre sei lì alla Casa Bianca… è una cosa talmente grande che non sai. Anche il libro, il diario di mio padre. Questo riconoscimento dell’Unesco. Dovrebbe arrivare una conferma ufficiale; mentre aspetti, ti domandi: “eh adesso, cosa faccio?”, perché è una cosa talmente grande, capisci?

A proposito di tuo padre, anche lui era un artista. Credi che questo ti abbia influenzato?
Certo, assolutamente! Io mi sono trovato tutto dentro. Ho sempre disegnato, e questo a lui faceva piacere. È una cosa che doveva uscire, trovata dentro non per caso. Per questo mi sento in dovere di restituirlo al mondo.

Nel tuo ottimismo e nei tuoi quadri?
Sì, sì, e fortunatamente quello che faccio piace, ai giovani soprattutto, perché è di lettura immediata. C’è la malizia della pubblicità, il taglio, l’essenziale. Quando ragiono un quadro, lo faccio domandandomi cosa posso portar via per riuscire a dare quel che desidero con il minimo possibile.

Un’ultima domanda, una domandona: con tutte le tue esperienze e i viaggi, alla fine sei tornato qui. Cosa ti piace di Pianezza?
Mah, sai, ci sono nato… e nel momento in cui decisi di spostarmi arrivò l’occasione di acquistare questo spazio come studio, che io trovo bellissimo…

Sì, confermo!
Pianezza è l’ideale per lavorare, non ti distrai più di tanto. Sei qui dove ci sono i tuoi amici e non ti monti la testa: esci e per tutti sei Guglielmo. Una volta mia moglie mi ha detto “guarda, usciamo di casa e tutti ti salutano sorridendo!”. Bello, no? Pianezza è una base, hai i piedi qui e vai dove vuoi. Non ho scelto di nascere qui, ma ho scelto di restarci, questo sì!